III

I sonetti del 1802-1803

1. L’anno dei grandi sonetti. Il sonetto «Alla Musa»

Nel 1802 il Foscolo portava a termine l’Orazione a Bonaparte (datata Milano, 7 gennaio 1802) e pubblicava le Ultime lettere di Jacopo Ortis, raccoglieva gli otto sonetti e la prima ode, spiegando un’attività di organizzazione del proprio lavoro sotto l’impulso di una nuova volontà pratica e di un’urgenza di espressione che, mentre continuava nel Carteggio Arese in maniera piú immediata e prosastica, si era andata trasportando piú decisamente attraverso le prove di quegli anni su piano lirico in una conversione all’intimo che ben si avverte nei grandi sonetti e nell’ode milanese: processo interiore in cui si distingue la linea foscoliana cosí esclusiva nella sua direzione e cosí alimentata dall’interno di vita e di distacco, di impegno e di sguardo superiore. Cosicché quanto il Foscolo aveva espresso nell’Ortis e in parte nei sonetti precedenti viene nel 1802-1803 ripreso, in elementi essenziali, ad uno strato piú profondo e dominato da una mano artistica piú sicura.

Prima del Commento alla Chioma di Berenice, questi sonetti e la grande ode rappresentano un momento di altezza poetica e insieme di una nuova espressione personale del Foscolo che ha superato il gusto del tumultuoso drammatico, in direzione romanzesca, le forme piú estreme di brusca apertura, di rotta armonia in corrispondenza all’angoscia ortisiana fermata in concisione rude ed eloquente.

Ode e ultimi sonetti nacquero nello stesso periodo ed anzi molto probabilmente l’ode fu iniziata prima dei sonetti, che furono scritti durante la sua lunga elaborazione: il che accentua i legami fra questa composizione e in qualche modo riverbera nei sonetti piú animati e profondi la luce serena e pensosa dell’ode diversamente da quanto avviene fra primo Ortis e Sonetti, nei quali ben poco si può avvertire di quella esperienza ripresa e trasformata nella grande ode milanese.

La base dell’ode e dei sonetti ultimi nell’animo foscoliano è divenuta piú larga e profonda ed una comune disposizione di contemplazione interiore sempre piú personale e sempre piú intimamente storica e aperta alle direzioni piú profonde del tempo.

E mentre nell’ode la direzione della prima ode è allargata al di là di un’esplosione di vitalità e di «bello stile» neoclassico in un sorriso pensoso, complesso, “consapevole” del limite della gioia e della bellezza nel loro valore d’altra parte piú assicurato ad una religione estetico-mitica di maggiore ricchezza culturale e filosofica, nei Sonetti il drammatico e l’eloquente, la storia breve e tumultuosa, l’autoritratto compiaciuto e risentito vengono riveduti come da maggiore distanza interna, contemplati ormai e d’altra parte approfonditi come elementi di una piú unitaria esperienza personale poetica capace di usufruire di esperienze precedenti come sfumature di un nuovo tono unitario e deciso.

Leggeremo l’ode dopo i quattro sonetti come l’opera che meglio giustifica l’attacco al Commento alla Chioma di Berenice e su cui meglio si appoggia una ricerca sul neoclassicismo romantico foscoliano, non dimenticando però i legami e la luce che da quella viene alla nuova condizione degli ultimi sonetti.

Il sonetto XI[1] si incontra con le frasi iniziali dei Frammenti su Lucrezio giustamente attribuiti[2] a questi anni di complesso tormento letterario prima e intorno al Commento: «Mi abbandonò prima degli anni giovanili il dolce spirito delle muse, che prima mi iniziò alle lettere. Io era appena tinto della lingua latina, e ignaro al tutto della toscana, quando venni di Grecia in Italia...» (si ricordi che in una lettera del 9 gennaio 1803 al Rosini il Foscolo si rappresenta immerso negli studi: «vi dirò di me ch’io morior curis, che vivo in casa piú giorni della settimana, che ho la barba lunghissima, che veglio la notte e dormo il giorno, che traduco in prosa litteralmente Lucrezio...») e poi «Quei primi anni della mia gioventú sebbene circondati da molte miserie furono come illuminati dalle Muse, e fu il mio ingegno come inaffiato dalla poesia alla quale tutta l’anima mia si abbandonava... Ora... me ne distorna non solo il sentirmi in cuore poche faville di quel primo fuoco... Ma poiché mi abbandonò lo spirito delle Muse, non volli del tutto abbandonarle, e per la gratitudine ch’io devo ai lor benefici, e per la soavità che hanno lasciato dentro di me» (Prose, II, pp. 195-196).

Pagine che sono lo spunto del Commento alla Chioma di Berenice e la ripresa e il chiarimento del sonetto II in cui le rime «rade», «operose», vengono contrapposte ad un’epoca di abbondanza poetica (anche se di «ineruditi conati»), di spontaneità vagheggiata anche e come vitalità.

Alla base dunque del sonetto una situazione piú immaginata che vera (l’inaridirsi della vena poetica in confronto ad un’epoca di felice abbondanza d’ispirazione) lega un motivo di nostalgia veramente fecondo (anche se poco sviluppato successivamente nella poesia foscoliana) per la prima gioventú tutta irrorata di poesia in contrasto con una visione cupa del futuro incerto (il motivo forte, personale e generale dell’insecuritas) al motivo deteriore e che sciupa l’ultima terzina e inficia tutto il sonetto con il richiamo inopportuno di una mossa piú arcadica («e mel ridice Amore») e con una conclusione cavillosa, sonettistica e contenutistica che, indicativa per una direzione psicologica dei sonetti ortisiani (le rime «rade», «operose», insufficienti a «sfogare» il dolore fatale dell’animo foscoliano), rivelerà su tutto il sonetto aperto con tanta felice larghezza una concezione fra drammatica e melodrammatica lontana dall’altezza dei tre sonetti contemporanei e risponde a un’esigenza piú autobiografica e programmatica che poetica.

Il tema vero era la nostalgia[3] ed un confronto fra passato illuminato dalla gioventú e dalla poesia e presente-futuro (limitazione della vena poetica ed urto in una specie di sogno senza poesia o con poca poesia alle paurose membranze e al timor cieco del futuro). In realtà, senza voler cercare una coerenza puramente logica, ma cercando legittimamente l’interna coerenza di motivi e di sviluppo, si avverte in questo sonetto, sotto l’apparenza di un abbandono misurato ed ampio, di una suadente musica serena e malinconica (effettiva nel movimento generale e interno al motivo essenziale), una genesi contorta, “operosa” in senso deteriore, tra meditazione profonda (nuova condizione degli ultimi sonetti) e frettolose soluzioni piú arcaiche, patetiche e facilmente drammatiche ed eloquenti, una direzione poco sicura rivelata appunto dall’infelice finale, che ci riporta a forme piú esterne e ingenuamente ortisiane di cui sono spia, oltre il petrarchistico «e mel ridice Amore», l’assolutezza esteriore di quel dolor che «deve albergar meco» (perché «deve»? Sí, «fatale», ma dà piú l’impressione di una volontà, di un programma e di una espressione galante romantica che non di “necessità” sentimentale poetica ed è infelice traduzione di tanti moduli piú vivi e foscoliani della fatalità della sventura) e direttamente il bisogno di uno “sfogo” del dolore.

La parola nuova sarà «ristoro» non “sfogo” e questo rimpianto delle facili poesie giovanili, riferibile al Carteggio e al desiderio di un nuovo Ortis, indica soprattutto gli strascichi dell’Ortis nella sua esigenza piú visibile e meno depurata. E d’altra parte le «operose» rime avevano rappresentato un’esigenza di essenzialità tipica dei sonetti accanto all’autoritratto in prosa poetica dell’Ortis.

Nella parte piú interessante del sonetto (le due quartine e la prima terzina) un alternarsi di gruppi di versi chiari, aperti, luminosi, e di altri piú malinconici e cupi (anch’essi lontani dalle forme ortisiane piú estreme) e dunque tutti su di un piano piú arioso e sereno – malgrado il riverbero di psicologismo dell’ultima terzina – corrisponde ad un essenziale passaggio replicato da passato nostalgico a presente in un’unica atmosfera di leggero intenerimento rasserenato ed oscurato verso i due poli dell’«allora» e dell’«ora», sull’unico slancio invocativo nostalgico: «Pur tu... E tu... tu pur...», che lega saldamente, e senza la prepotenza di altri sonetti, la comparazione nella sua parte vitale. E lega questa parte essenziale la figura ormai foscoliana della Musa intimamente mitica – non l’Italia del sonetto del 1798 – men bisognosa di elementi decorativi (eleganti ed ironici) della prima ode, accompagnata dal trasvolar leggero delle «Ore» (tipica figura della mitologia foscoliana il piú possibile vicina alla realtà della vita, ad una idealizzazione non decorativa alla Monti) in una visione di classicismo romantico ormai cosí nuovo rispetto all’ornamentale piú comune del tempo, come – a parte l’ultima terzina e il suo riflesso su cui non occorre piú insistere – nuovo ormai si presenta il “dramma” dei sonetti, persino troppo ridotto di fronte alla sua funzione piú intensa nei sonetti contemporanei piú complessi e piú densi, ad un trapasso replicato di toni su di una direzione meditabonda, in una invocazione che ha poi bisogno di una “zeppa” come l’ultima terzina per terminare in un appoggio piú esplicito, mentre la conclusione alta degli altri è in relazione alla loro completezza, alla loro ricchezza di storia intera.

Su questa direzione il motivo del rimpianto di un’epoca felice di ispirazione e di giovinezza («fiorenti anni») e quello di un’ansiosa contemplazione del presente e del futuro (il «timor cieco» è l’espressione piú forte e pur necessaria a chiudere la serie di sentimenti legata ai tre tempi della contemplazione interiore) si alternano con una fusione sempre maggiore e un intensificarsi dello slancio nostalgico legato a quel ricordo e del senso del presente che colora anche lo stesso passato della sua condizione («pensose» membranze).

Un senso di affetto e di mito, di figurativo e di musicale, di fermo e di trasvolante: una figura non descritta, ma viva nella musica che la esprime, nella condizione di serenità pensosa in cui si muove fra nostalgia ed ansia, ecco l’impressione di questo sonetto. Ed impressione di un organismo snello, spazioso, continuo (sino al verso 11), senza la pesantezza e la genericità del “patetico”, e senza ormai il turgore dell’eloquenza drammatica superata e inverata in uno slancio intimo: impressione che si precisa in una costatazione di superiore dominio dei sentimenti e della tecnica che questa volta funziona in pieno impiego poetico pur facendoci sentire echi di cultura letteraria, tracce della via seguita dal poeta nel suo processo interno di elaborazione di questi sonetti e piú in generale di processo formativo della sua poetica attraverso le «rime, rade operose» e le Odi.

Da tale punto di vista vengono a prendere valore senza presentare pericolo di sopraffazione le osservazioni già fatte sul cammino foscoliano verso un chiaro neoclassicismo romantico e quelle sulla specifica utilizzazione in campo “sonettistico” di mezzi tecnici, di suggerimenti offerti dai petrarchisti: non solo Petrarca e il petrarchista romantico, Alfieri, ma i petrarchisti del ’500 e soprattutto Della Casa e Galeazzo di Tarsia. Echi dellacasiani sono evidenti in questo sonetto ai versi 10-11:

tu pur mi lasci alle pensose

membranze, e del futuro al timor cieco;

o all’inizio della seconda quartina[4]. Ma non tanto si tratta di “lessico” e d’immagini o di veri «prestiti»[5] quanto di procedimenti poetici, di modi di costruzione del sonetto e di legame fra immagine e musica a cui tanto il Foscolo guardava.

Fra questi l’uso sempre piú frequente e costante dell’arcatura o enjambement, pur usato dal piú scandito e impetuoso Alfieri ed usato tutto esteriormente dai sonettisti del Settecento per effetti mimetici e di effetto.

Nella sua ricerca di concisione energica, di essenzialità di un dramma interno, il Foscolo nei primi sonetti aveva cercato soprattutto il verso epigrafico e il legame scattante e, se nei sonetti amorosi non mancano legami tra le due terzine o fra le due quartine (fra quartine e terzine solo nel sonetto VI Meritamente), ciò avviene soprattutto per ricerca di risultati di forza.

È nei sonetti maggiori e già in questo che la “arcatura” compare con maggiore evidenza e con una maggiore vicinanza al procedimento dellacasiano[6] e con maggiore originalità personale, in una funzione generale di espressione complessa ed intima, di rivelazione ed illuminazione, come in un profondo ed unico sguardo interiore, di tutta una storia spirituale.

Approfondire e unire energico e “grave”, appassionato e sereno-mitico («passionato» e «mirabile» dirà poi nella Chioma di Berenice), è adesso lo scopo foscoliano evidente in questa cura musicale che vuole unire, render piú organica la misura del sonetto e insieme arricchirla – sulla traccia degli effetti puntuali dei sonetti precedenti – di «dissonanze», di «ombre» quanto piú tende ad una luce non fittizia e non monotona, capace di rappresentare piú limpidamente, non di annullare la complessità della vita interiore, la «verità e schiettezza» degli affetti e motivi poetici: che sono espressioni non casuali adoperate dal Foscolo in una lettera del 29 maggio 1804 (Ep., I, p. 197) al Bettinelli nell’inviargli il sonetto in morte del fratello: «Giudicatelo come sonetto d’uomo che scrive a sé, che alle immagini antepone gli affetti, allo splendore delle frasi la schiettezza e la verità», in cui alla contrapposizione polemica della propria poesia alla poesia decorativa del suo tempo (la battaglia su due fronti del Foscolo romantico verso i neoclassici, neoclassico verso i romantici per una posizione di altissima funzione storica e personale) e alla coscienza della propria originalità (e si noti che l’espressione di solitudine torna proprio nei Vestigi della storia del sonetto italiano per Galeazzo che «scrisse poco e per sé, o com’uomo che non sa né vuole imitare altri, e che insieme non affetta di battere nuove strade», che è un ritratto ideale del Foscolo maturo) va congiunta la esigenza di una espressione poetica adeguata a tali presupposti in parte equivoci e contenutistici di uno stile che stupí il Cesarotti (come già l’Ortis per il suo romanticismo estremo) per la sua originalità di splendore intimo, di miti nati dal proprio sentimento e di musica che supera drammaticità ed eloquenza inverandole liricamente senza dispenderne le ragioni vitali.

Ed ecco quanto il Cesarotti scriveva al Foscolo in data 7 maggio 1803 (Ep., I, Ed. Naz., I, p. 180): «Ho gustato molto i tuoi versi, spezialmente i sonetti, nuovi di stile, pieni di eleganza robusta, di pensieri grandi ed energici; insomma rari ed insigni. Solo mi spiace di vedere entrare i quaterni nelle terzine, senza posa di verso, né interruzione di sentimento. Non so se ne ho qualche esempio se non nel Casa; e non mi par da imitarsi, fuorché in qualche caso straordinario, come nel bel sonetto della Maratti sull’allegoria della tempesta. Negli altri soggetti ciò discorda dalla bella armonia e sconcerta l’aggiustata disposizione delle parti».

Nella incomprensione del legame fra tecnica e poesia, fra stile e sentimento, nell’esteriore canone della convenienza del soggetto (l’allegoria della tempesta!), il giudizio del Cesarotti[7] serve bene a mettere in luce l’importanza del singolare ritmo e della singolare misura dei grandi sonetti, che, per «schiettezza e verità» e in realtà per nuova e originale poesia, rifuggono dalla «bella armonia e aggiustata disposizione delle parti» verso una nuova armonia e una nuova articolazione tradizionale e rivoluzionaria, in un’inconfondibile unità poetica dove calcolo, scelta e ispirazione concretamente operanti hanno finalmente superato l’accentuazione unilaterale di drammaticità e di eloquenza, di bell’inno gioioso, di «bello stile» e di “sfogo”, di rime «operose» e di poesia irrorante la vita intima del poeta. E la tempesta intima (ben piú profonda di quella della Maratti! o dell’enfasi eloquente di un Frugoni o del drammatico barocco del Minzoni) trova finalmente una espressione aderente e superiore allo “sfogo”, all’autoritratto pieno di scatti e gesti che si addensano in maniera interessante e vitale, ma pericolosa nei sonetti precedenti.

La nuova armonia risultava dalla conquista di un piano sentimentale piú alto e da una scelta e dominio di mezzi espressivi personalizzati e radicati in una tradizione che il grande poeta sempre si crea rilevando con la sua potente utilizzazione filoni e tendenze letterarie altrimenti rimaste scialbe e poco vive in se stesse.

Cosí l’arcatura passava da un uso prevalentemente poetico-retorico (ma io sono propenso a riconoscere nel Della Casa degli ultimi anni piú che coscienza artistica, anche una necessità poetica sopraggiunta e sviluppatasi nella tarda maturità) e dalla sua condizione di mezzo tecnico da adoperarsi secondo la convenienza del soggetto, ad un uso nuovo, altamente lirico inconfondibilmente foscoliano, vivo soprattutto nei tre ultimi sonetti e corrispondente al bisogno di un’espressione insieme continua, armoniosa e drammatica, ad un viaggio della fantasia e ad un respiro dell’animo a cui ripugnano ormai le forme brevi, concluse del neoclassicismo brillante e la violenza della prosa poetica romantica o del sonetto tragico-lirico.

Nella poetica degli ultimi sonetti, dopo lo sfogo ortisiano e la poetica tragico-lirica attuata nei sonetti del 1800-1801, viene prevalendo in una maturità intima di sentimenti una volontà e una capacità di poesia meno esternamente movimentata e drammatica: ogni riferimento troppo esterno è abolito e al posto della violenta evidenza autobiografica un ripensamento profondo e una disposizione espressiva di limpida evocazione presentano una linea essenziale di storia interiore tutta risolta liricamente.

Ora l’esperienza ortisiana è superata e i grandi sonetti ne rivedono le linee piú profonde e meno particolari e nascono in un atteggiamento sentimentale piú maturo di cui ci è testimonianza, pur nella sua varietà, il Carteggio con l’Arese.

* * *

L’importanza del Carteggio con l’Arese è molto maggiore di quanto poté apparire in generale alla critica che ne usufruí per accostamenti ai singoli sonetti o all’ode per commentarli e assicurare la durata di certi motivi e che tra l’altro ebbe davanti l’edizione lacunosa di G. Mestica (Firenze 1884), spesso, per ragioni moralistiche, addirittura sibillina. Solo con l’edizione Carli (Edizione Nazionale, Epistolario, I, Firenze 1949), malgrado la discutibilissima disposizione che non permette (una volta di piú) utilizzazioni esattamente cronologiche[8], meglio si è potuta calcolare l’importanza di questo abbozzo di romanzo autobiografico (e molti sono i legami con l’omonimo lavoro frammentario piú chiaramente orientato in direzione di un romanzo sterniano e valido dunque ad indicare la precocità dell’influsso di Sterne e della disposizione didimea, specie se si accolgono le ipotesi di datazione del Fubini)[9] e di cronaca animata di vicende e di sentimenti del 1801-1802.

Anche se l’ipotesi del Caretti di un chiaro disegno preventivo a romanzo (a cui il Foscolo accenna continuamente, ma come a materiale da conservare per un futuro romanzo) e dei netti piani di interesse (romanzo e cronaca) appare eccessiva come l’idea che in questa prosa si possa esattamente cogliere il passaggio da Ortis a Didimo, è chiaro che il Carteggio proprio nella sua complessa vitalità di spunti per un’opera autobiografica (l’Arese stessa chiamava il Foscolo «romanzo», «romanzetto ambulante») e di precisazione di temi e di toni ormai piú non ortisiani, in mezzo allo stanco rifluire di eccessi ortisiani persino esagerati e tali da indurre il Foscolo stesso a scusarsi in anticipo e ad intuire l’accusa di esagerazione (le febbri, l’oppio, le disperazioni che sfiorano il ridicolo come nella lettera da Bergamo pur cosí notevole poi per la sua minuta eleganza), costituisce un documento essenziale per la personalità e l’arte foscoliana e si può dire che nelle varie direzioni esistenti nel Carteggio (lo sfogo ortisiano ormai piú generico e privo di ogni giustificazione ideologica, storica, politica, il gusto di disegno da cronaca elegante e sentimentale – le scene e scenate col Petracchi, l’intrigo amoroso con l’aiuto di vecchi servitori, cameriere, ecc. –, l’ariosa libertà di certe caricature di alta resa stilistica – come quella del francese «dal fiaschetto d’acqua di rose» –, il vero senso di infelicità che meglio si misura dove è piú pacato e malinconico, l’esaltazione dell’amore, della voluttà che non si confonde con la bizzarra grazia di certe pagine libertine sul motivo del «frater penis» legate anch’esse del resto ad un gusto artistico minuto e raffinato – la lettera latina da Pavia del 1803 –, la nostalgia preventiva delle ore beate dell’amore insidiate dalla gelosia e dalla coscienza della frivolezza della donna-dea) domina un essenziale tono di esperienza piú matura, una malinconia piú virile (con meno attacchi storici, politici, speculativi, con meno dispersione nel paesaggio sostituito qui da un neutro sfondo cittadino), un fare piú attento e pensoso, piú controllato. E pur nel gusto dell’autoritratto, della posa dell’addolorato, del “perseguitato”, atteggiamenti e frasi di maggiore intimità, di ripensamento senza eccesso di sfogo, guidano alla poesia del 1802-1803, alla poetica non della serenità, ma del dramma rivisto con distacco e con volontà piú di un’intensa eco profonda che di una sincerità drammatica, di un rilievo prepotente, efficace. E come nel Carteggio gli impeti drammatici abbondano, ma non superano i nuovi toni piú veri e vivi, cosí nelle poesie di questo periodo il dramma e l’eloquenza della personalità romantica vivono essenzialmente funzionali ad un’espressione piú generale e profonda, di una vera storia dell’anima mediata nella memoria e nella fantasia, concentrata in parole essenziali, unificatrici (si pensi alle «cure» di fronte alla molteplicità delle parole indicanti tormento, ira, errore, ambascia, ecc. nei primi sonetti), meditata in una solitudine meno orgogliosa e agonistica (raggiunta solo nelle pagine piú alte dell’Ortis, seconda parte, e in certi inni alla morte, e assolute meditazioni pessimistiche che nel dramma ortisiano sono come punti di pausa sul culmine del movimento o piú profondi nodi di assicurazione del pensiero foscoliano). Ma si badi bene subito, prima della lettura dei grandi sonetti, che mentre i residui idillico-elegiaci presenti nei sonetti minori danno luogo piuttosto a contaminazioni che ad effettive fusioni o realizzano movimenti suggestivi, ma equivoci e provvisori (come in tante pagine della prima parte dell’Ortis), nei grandi sonetti l’elemento drammatico rimane pur sempre fondamentale, indispensabile, materia e soggetto della nuova disposizione meditativa e contemplativa e tende pur sempre la linea di quelle poesie, rende vivo quello sguardo superiore, ben diverso, ad esempio, dalla pacatezza pariniana e diverso anche dall’animo del Foscolo delle Grazie.

E perciò anche l’esperienza dei primi sonetti (esperienza artistica notevolissima nella spirale foscoliana pur nell’eccesso di poetica drammatica e nella mescolanza insidiosa e quanto piú generosa della urgenza poetica ortisiana) è tutt’altro che trascurabile per i grandi sonetti che spesso ricalcano le forme esterne di quelli approfondendole, pausandole, arricchendole di altra disposizione e di altra aspirazione, ma non rinnegandole se non nelle loro punte piú acerbe, come si può vedere negli inizi.

Non si tratta di un capovolgimento, di una brusca inversione di direzione, ma di un approfondimento, di una storia piú intima, di un’ispirazione piú vera, una poetica di movimento piú animato e contenuto non per sforzo di effetto drammatico, ma per esigenze di pensosa limpidezza e per risultato di poesia meno urgente, meno vistosa e sonora.

Ora l’Ortis è compiuto, il Carteggio scarica e supera i movimenti piú esterni dell’irrequietezza romantica: nella poesia affiora il fondo piú intenso guardato dallo sguardo piú puro e finalmente il dramma si risolve tutto in lirica.

2. «A Zacinto»

Il grande sonetto del 1802, legato anche contenutisticamente all’ode («ebbi in quel mar la culla») e al suo programma di poesia greco-italiana, ha il suo movimento caratteristico nel riferimento alla terra natale sacra e poetica che giustifica la tenerezza affettuosa («Zacinto mia, materna mia terra») e insieme la solennità di inno, mentre piú facilmente le suggestioni greche e omeriche permettono l’orientamento altamente neoclassico del gusto in questa poesia, la vita nuova del mito antico.

E la creazione di due poli (uno vero, ma lontano: la patria involta di miti; l’altro fantasticato e fatale: la tomba illacrimata: e il «giacque» li collega con un audace scambio di direzioni di riposo) di tensione cosí assoluti e contrastanti ai due termini di una vita avventurosa e drammatica corrisponde alla lucida meditazione e alla scoperta essenziale di un ritmo e di un senso della vita fino allora veduto piú confusamente e tumultuosamente in espressioni piú frammentarie per quanto convergenti verso una simile continuità di storia personale poetica.

Ben lontano da un inno mitologico archeologico come da uno sfogo appassionato e drammatico, il grande sonetto si imposta in una zona di assolutezza personale che unifica senza sforzo tensione drammatica e sacra, mito figurativo e sentimentale in un ritmo profondo che traduce in un percorso complesso, ma limpido, necessario fra i due poli non fittizi il senso della vita foscoliana che può sollevarsi qui ad un significato totalmente lirico, ad una piena rappresentazione poetica.

Il sacro è in questo sonetto non solo nei movimenti limpidi e solenni, nel richiamo sereno e intenso dei miti, ma nelle stesse parole assolute, senza l’allusione esterna di eleganza galante che c’era nella prima ode: «Sacre sponde», «toccherò» (che non è generico specie se si collega all’omerico «baciare» di Ulisse come gesto «pio» di un esule), «acque fatali», «il fato prescriva», e d’altra parte il mito di Venere che nasce dalle acque («vergine», cioè donna secondo quanto dice il Foscolo alla nota al v. 71 del testo catulliano della Chioma di Berenice) è, oltre che una figura di bellezza e di serenità (ben diversa dalla Venere graziosa e preziosa della prima ode), una figura di mito che si riferisce a quello strato di “verità naturale” a cui il Foscolo veniva riconducendo la sua mitologia romantico-neoclassica: Venere è la natura fecondatrice, la Venere lucreziana con la sua aria primaverile, vitale e vivificatrice. (E per tale senso nuovo del mito su cui poi insisteremo si veda sin d’ora la Considerazione X del Commento, Op., I, p. 389: «I poeti-teologi e gli storici-filosofi intendendo la Natura sotto questo nome di Venere – Lucrezio, I, sul principio – lo applicarono a tutte le creazioni e gli effetti della procreazione»).

L’esteriore «ieratico» dei «vati» neoclassici (che il Croce chiama giustamente «verseggiatori del grave e del sublime»[10]), conviviali e retorici nelle loro vanterie di ispirazione e di grecità (Paradisi, Fantoni, Mazza, Cerretti, ecc.), è qui sostituito da un tono religioso, fatale e mitico, che nasce da una storia personale ed umana (Ulisse è la nobilitazione dell’esilio del Foscolo e insieme il simbolo di una sorte generale di uomini generosi e sfortunati) sotto la luce piú limpida dell’animo ormai sicuro anche se tormentato da affetti contrastanti ma dominati da una singolare forza di introspezione e di enucleazione di linee fondamentali.

In una condizione veramente lirica in cui eloquenza ed elegia sono divenute movimenti funzionali, il dramma essenziale è stato illuminato nelle sue linee piú vere e piú originali e cosí poeticamente dominato, la storia della propria vita appare piú vera, piú interessante, piú “rappresentativa”, meno concitata e spezzata in singoli contrasti e in affetti momentanei. (Quella illuminazione cui l’Alfieri non giunse proiettando con forza tragico-lirica il mondo tormentato del suo animo nella vita dei suoi personaggi).

In tale condizione il Foscolo rivide la storia della propria vita nei tre grandi sonetti, ma in quello A Zacinto ciò avvenne nella maniera piú limpida e nella sua maggiore rappresentatività: tutta la vita nei suoi due termini e nel suo ritmo fatalmente errabondo rivista sullo sfondo del mito greco che deve tradurre sensibilmente la vocazione poetica foscoliana, la sua naturale e riconquistata grecità, ed alzare ad altezza sacra e “mitica” una vicenda personale ed umana disperdendo ogni accento troppo pratico e nobilitando persino il simbolo preromantico dell’«illacrimata sepoltura»[11], mentre la “verità” della nascita greca introduce una tenerezza affettuosa che ben media il passaggio fra il ricordo della fanciullezza, il mito primaverile di Venere e la vicenda illustre di Ulisse.

Come si vede, nulla qui di puramente decorativo e il rimpianto schilleriano degli Dei della Grecia per la bellezza che per diventare eterna deve morire, passare nel ricordo, essenziale al neoclassicismo romantico, come il motivo dell’ode On a Grecian Urn di Keats, è precisato e liricizzato personalmente dall’effettiva realtà di una terra perduta ed amata dal poeta, di un ricordo e di un vagheggiamento personale.

L’invocazione di Zacinto diventa cosí evocazione di miti insieme generali e personali che mentre nobilitano ed elevano la vicenda personale ne vengono a loro volta alimentati di calore e di interesse. Fra i due poli di tensione nostalgica (nostalgia e rimpianto preventivi) la poesia si svolge con unità perfetta e con costante ricchezza in una soluzione unitaria di poetica e di poesia: unica direzione di immagini, di tono alto e limpido, solenne e affettuoso, di tensione e visione, unico ritmo meraviglioso che traduce il passaggio fra dolore e serenità nel senso dell’avventura eletto a fatale che avvicina e diversifica il poeta da Ulisse, nella consapevolezza “pensosa” di un destino ineluttabile e perciò triste e sereno.

Invocazione ed evocazione (il colloquio è essenziale ai grandi sonetti) si fondono, tono fatale, religioso e mistico si uniscono su di una trama essenziale di viaggio (con il viaggio affannoso del sonetto Meritamente o in generale dell’Ortis) della fantasia e del cuore.

Si può sentire che nel sonetto Alla sera il Foscolo giunse ad uno scavo ancor piú profondo e seppe creare una luce spirituale piú intensa e piú pura, che in quello In morte del fratello Giovanni raggiunse una complessità maggiore e una suprema ricchezza di figure e di direzioni poetiche, e che qui lo splendore appare persino troppo terso come se fosse una impeccabile pittura (ma sempre «dipingere contro descrivere» è essenziale principio foscoliano), ma non si può in alcun modo porre in dubbio l’unità, la continuità e la genesi del sonetto che è oltre tutto un miracolo di novità sulla spinta della forza iniziale dell’ode milanese e pur nel calore del «mirabile» e «passionato» che in quest’epoca il Foscolo scopriva come eterno motivo della poesia. L’inno evocatore del ricordo e mitizzatore della linea essenziale della vita nasce e si svolge in una chiara elaborazione artistica ed in una genuina fluidità di ispirazione e corrisponde allo sguardo intimo che ricostruisce, illumina e trasforma la vicenda vitale in un unico mito («unità e varietà» sarà altro canone della poetica successiva del Foscolo) e in un unico ritmo.

Non può che stupire come davvero dopo il Cesarotti ancora in tempi recenti il Citanna sentisse squilibrio e il finissimo De Robertis per eccesso di esteriore classicismo potesse dire: «certo manca di equilibrio e di simmetria, ma è bello ugualmente e veramente foscoliano» (Poeti lirici dei secoli diciottesimo e diciannovesimo, Firenze, terza edizione, 1936, p. 51). Né sentirei come «congiungimento di suono prosaico» le formule relative (ove, onde, ecc.) che coerenti all’inizio e al movimento continuo e pausato – come di chi si addentra in una visione intima – urtano solo chi della poesia riceveva assurdamente vive e legittime solo le parole immediatamente immaginose e sensuose e non unità piú vaste in cui particelle e parole apparentemente discorsive vivono di una generale luce poetica, fanno immagine nel loro insieme.

Osservazioni veramente formalistiche, né si può slegare il procedere meditativo dell’inno evocatore da quel bisogno tutto foscoliano di salda struttura e di rigore. D’altra parte il dramma non è per nulla accantonato e l’inno evocatore e mitizzatore da quello trae nascita, dalla sua sintetica linea illuminata da uno sguardo interiore, ed il sonetto è ben lungi da uno svolgimento rettilineo, orizzontale, senza rilievo e senza intimo movimento, come sembrò all’esame del Citanna. E il tono religioso e fatale che solleva le immagini limpide e ne rende, là dove c’è, alto ed assorto il sorriso in questa visione classica, greca non “bella”, ma intensa e vitale, spiega la particolare novità di questo sonetto e la singolare possibilità di un dramma rasserenato in un inno e in una evocazione della propria vita in un unico flusso di immagini e miti.

Non piú particolari, non piú gesti e concitati abbandoni, non piú un possibile contrasto fra impeti e concisioni epigrafiche: i mezzi stilistici già provati parzialmente (l’arcatura, gli inizi ex abrupto) trovano qui un uso intero e giustificato poeticamente.

La fantasia foscoliana infila in un unico giro (e senza sforzo) con la replica raccorciata della seconda terzina (che nel sonetto della Musa è un’aggiunta e qui una conclusione indispensabile poeticamente, contenendo il nucleo fino allora non esplicito: «l’illacrimata sepoltura» e l’ordine indiscutibile del fato – in un verso finale tutto fatto di parole-temi che conclude in modi assoluti il movimento cosí continuo di tutto il sonetto) tutta una serie di immagini-sentimenti (la novità proclamata dal Foscolo) che sciolta dal ritmo, dal respiro essenziale (l’abbraccio che va da «Né piú mai toccherò» all’«illacrimata sepoltura»), non si immaginerebbe possibile nel breve giro di un sonetto: si provi a metterla in prosa, si avrà l’impressione dell’«albatros» baudelairiano superbo nel volo, ma incapace di camminare.

Il senso di volo lento e sinuoso della fantasia nell’attacco cosí alto, assoluto (come la conclusione di una lunga meditazione), si regge sui passaggi che altrove sembrerebbero ragionativi e schematici (ove... che te... da cui... onde... di colui che... per cui... ecc.) e che qui accentuano invece questo processo di immagini pure e pittoresche, questa articolazione necessaria e limpida, coerente al senso del fatale e di un ripensamento interiore, di intimità pensosa e malinconica serenità. Il trascolorare di immagini omogenee (fanciullezza, Zacinto, mare greco, apparizione di Venere, canto omerico di un cielo percorso di candide nubi, viaggio errabondo di Ulisse) si svolge nel loro succedersi ad onda complessa in una linea di proporzioni perfette, di passo eguale e sereno e appassionato fino all’approdare patetico e risolutivo di Ulisse, con cui coincide l’approdare del ritmo a quel verso ampio, aperto e ancora interamente mosso:

baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Ma un nuovo movimento raccorciato ed omogeneo (la seconda terzina) replica il giro generale e vi si aggiunge come un ultimo anello indispensabile.

Costruzione perfetta in cui la nuova disposizione dell’animo foscoliano e la poetica di una lirica evocazione della storia interiore appoggiata alla invocazione di una entità cara e perfetta si sono tradotte senza residui utilizzando ogni esperienza precedente (soavità affettuosa del finale del sonetto Al Lungarno fiorentino, forza epigrafica del sonetto Non son chi fui, ecc.) e realizzando il vero superamento lirico della condizione “ortisiana”.

3. «Alla sera»

Se A Zacinto e In morte del fratello Giovanni hanno anche nel loro tema piú esterno un’originalità assai chiara, una “occasione” bene enunciata (la nascita greca, la morte sventurata del fratello), il sonetto Alla sera si presenta originalissimo pur entro una tradizione complessa fra precedenti piú solenni e drammatici (Al Sonno del Della Casa, Alla notte di Michelangelo), concettistici (Al Sonno del Marino) e precedenti piú vicini (Le notti di Young, le Poesie campestri del Pindemonte). Evidentemente il Foscolo ebbe presenti molte poesie sul soggetto “sonno”, “sera” (Petrarca, Marino, che suggerisce fra l’altro alcuni verbi in fine di rima: «orme», «dorme», «fugge», «strugge»[12], il sonetto tanto amato del Della Casa cosí presente anche per gli altri sonetti, quello di Michelangelo), e certo nella memoria, e attivi già negli Sciolti al Sole e nelle «Quarantacinque lettere» e nell’elegia Le rimembranze[13], i versi pindemontiani.

Proprio questi (La Scia, p. 189, edizione Verona 1817) fanno ben sentire anche sul punto piú tenue e letterario la novità foscoliana:

Ma o sia che rompa d’improvviso un nembo,

che a te spruzzi il bel crin, la Primavera,

o il sen nudo, e alla veste alzando il nembo

l’Estate incontro a te nuova leggiera,

o che Autunno di foglie il casto grembo

goda a te ricolmar, te, dolce Sera,

canterò pur; s’io mai potessi l’ora

tanto o quanto allungar di tua dimora...

(e nella poesia alla Luna aveva detto:

O al tuo lume sereno

sieda l’Estate, discoperto il seno,

o il Verno assiderato

vada i tuoi rai cercando...)

(p. 146)

aveva detto il Pindemonte sulla sua tenue fantasticheria di figure mitologiche e di leggeri spunti descrittivi. Il Foscolo invece riduce – pur nello spazio eccessivo concesso alla rappresentazione della sera – i particolari pittoreschi al minimo ed esclude ogni figura convenzionale. E se questo può essere maggior concessione ad un gusto ancora settecentesco e l’eco di uno stadio precedente della propria sensibilità poetica, tutto il sonetto si stacca potentemente dal tipo di fantasticheria pittoresca preromantica, trasforma quella soavità blanda in un tono limpidissimo e assicurato ad una sorgente costante di ricchezza interiore.

La sera foscoliana (nutrita di suggestioni antiche) è certo piú vicina alle nuove immagini romantiche della sera, della notte e della morte che variamente accentuate animano tanta poesia di quegli anni. La notte come «ombra del morir» e la sera come pace assediano la fantasia dei romantici: una direzione che può trovare esempi cosí in Bernardin de Saint Pierre («La mort, mon fils, est un bien pour tous les hommes: elle est la nuit de ce jour inquiet qu’on appelle la vie. C’est dans le sommeil de la mort que reposent pour jamais les maladies, les douleurs, les chagrins, les craintes, qui agitent sans cesse les malheureux vivants» (Paul et Virginie, Œuvres, Paris 1840, p. 561) come in Heine («Der Tod das ist die kühle Nacht / das Leben ist der schwüle Tag»), che può diventare motivo mistico-sensuale dal «Sehnsucht nach dem Tode» che contrappone la notte e lo «Schlummer» al giorno dei sensi inferiori in Novalis o in Wagner (il duetto della seconda scena del secondo atto del Tristan und Isolde), che in Goethe e Hölderlin meglio si avvicina alla condizione foscoliana di «quiete» senza mistiche complicazioni, nella «Abendphantasie» del secondo o nel «Wanderers Nachtlied» di Goethe:

Komm du nun, sanfter Schlummer! zu viel begehrt

das Herz...

Ach ich bin des Treibens müde!

Was soll all der Schmerz und Lust?

Süßer Fried,

Komm, ach komm in meine Brust.

Ma se questi avvicinamenti servono bene ad allargare la base di risonanza di questa grande poesia foscoliana, a mostrarne la modernità romantica (e d’altra parte i richiami settecenteschi e cinquecenteschi indicano l’assiduo contatto con la tradizione), ci fanno anche meglio sentire la singolare originalità, la forza di costruzione e l’inconfondibile struttura intima della poesia foscoliana priva di ogni alone mistico, di ogni tentazione per il vago, cosí saldamente ancorata ad una meditazione poetica sempre centrale in motivi fondamentali dell’animo foscoliano, della storia interiore foscoliana, inseparabili da tutto il suo svolgimento speculativo ed umano.

Cosí in questo sonetto (che pure è di tutti il piú “suggestivo”, il piú simile ad una “fantasia”, il piú privo di “figure-persone”, di “oggetti-simboli”) la sera, che è meta di invocazione e d’evocazione, immagine della morte e con il pensiero della morte in scambio di attributi di pace assoluta e di soave dominio, vive non in un vago suggerimento né in una pittoresca figurazione (malgrado l’accenno forse eccessivo dei versi 3-4 sollevato però dal giro generale dell’evocazione), ma in un saldo processo di pensieri, sentimenti, immagini unificati senza predominio di intellettualismo, di sentimentalismo, di pittoresco.

Ogni pretesto occasionale è lontano come lontano è ogni mito colorito, ogni immagine di esterno personaggio: la meditazione lirica, in cui il Foscolo concepí i tre sonetti, è qui espressa nel suo stesso ritmo, nel suo processo di viaggio interiore, in una zona spirituale che nell’Ortis era stata toccata solo a momenti e a volte folgorata rapidamente in certi slanci intensi, limitati e mescolati a motivi eloquenti.

Il Foscolo non aveva toccata ancora una zona cosí profonda del suo animo, in cui, ripeto, ogni riferimento esterno è abolito (se non fosse come vedremo l’indugio pittoresco dei versi 3-4) e la stessa morte che con la sera domina il sonetto (e il primo segreto è questa unione che dà alla sera la serietà e l’assolutezza della morte, mediata nella sua qualità di immagine, alla morte la freschezza e il senso di sollievo della sera nel comune denominatore di «quiete» che si intensifica nel “necessario” «fatale» e si addolcisce nel «soavemente» che caratterizza il dominio della sera sul cuore del poeta) non ha riferimenti sepolcrali («pietra», «illacrimata sepoltura») o personaggi da colloquio funebre, e il destino infelice non si esprime mediante paragoni (Ulisse) e neppure in particolari della propria natura (esilio, ad esempio).

Il «vagare» è qui solo del pensiero del poeta nel suo lucido vagare verso l’immagine della morte. Tra il «forse perché»[14] lento e meditato, e il «nulla eterno», la mèta non è invocata con ardore (come nelle poesie giovanili e nei primi sonetti: «e so invocare e non darmi la morte», «Morte tu mi darai fama e riposo», «E sol la notte attendo / che mi copra di tenebre e di morte»): un sentimento di annullamento, malinconico e fermo[15], ottenuto effettivamente nella fantasia, si afferma svolgendosi dentro la sensazione del soave dominio della sera e della connessa immagine della morte.

«Fatal quiete» e «nulla eterno» sono i termini con cui, con diverso tono, la morte è indicata in questo inno alla sera-immagine della morte e certo la linea salda e sottile del viaggio della fantasia e del cuore ha in queste forme cosí risolute e vaste il suo appoggio piú sicuro: il credo materialistico del Foscolo è qui portato dai punti piú impegnativi dell’Ortis (le meditazioni sulla morte e sulla sacra trasformazione della materia rinforzata in quest’epoca dalla suggestione lucreziana) e concentrato in espressioni di decisione crescente (piú pensosa la prima, piú dura e vasta e filosofica la seconda) che funzionano da punti fermi e rivelatori (e non si può dire quanto rivoluzionari nella nostra lirica salendo a zona cosí eletta dalle traduzioni di Haller, di Klopstock, di Young, dalle imitazioni impacciate dei preromantici e dall’uso pseudobiblico delle visioni sempre correttamente “pie”), senza discussione e senza fremito di sbigottimento. Senza giungere a miti vistosi, il Foscolo è riuscito qui con estrema forza a costruire una poesia di immagini intime ed estreme (fino a toccare la prosa del pensiero – come il Leopardi nell’Infinito) a cui una linea parallela (l’immagine soave della sera persino – come vedremo – con eccesso di leggera freschezza) porta sensibilità piú esplicita, calore di contemplazione alla lucida e piú decisa meditazione.

Il movimento intimo (fra sensi, cuore e fantasia) di passaggio, dalla sensazione della sera e dalla sua natura di immagine della morte (come «fatal quiete») all’effettivo abbandono fantastico al pensiero dell’annullamento e all’effetto della pace che sopisce i tormenti del cuore tempestoso, si compie cosí sulle linee intrecciate del fascino della sera e del pensiero della morte (si badi bene: pensiero della morte, mediata immagine del «nulla eterno») e la sensibile “soavità” della sera è tanto piú alta in quanto corrisponde all’“assolutezza” del pensiero della morte. Donde quell’incontro di serenità e di nudità, di sicurezza e di sospiro pensoso, di religioso (la religione della necessaria realtà delle cose priva di esaltazione o di tristezza) e di fantastico, di severo e di soave, di meditativo e contemplativo che si sente in questa nitida voce dell’anima.

Il dramma anche qui è ignorato: è implicito nella aspirazione alla «fatal quiete» (tono piú forte proprio perché inespresso) e viene chiarito con una complessità personale-storica finalmente realizzata nel comune, altissimo termine delle «cure» (la parola nuova indicativa di questi ultimi sonetti) alla fine del sonetto quando lo sguardo interiore, pacificatore, può illuminare sicuramente anche il dramma senza esserne turbato.

Cosí la poesia conserva il ritmo foscoliano di intensificazione e di ascesa verso il finale, il ritmo continuo e ricco che sempre piú raggiunge condizioni di musica (un fortissimo dentro un pianissimo) dall’intimo, senza risorse di esterna sonorità: l’ex abrupto è diventato un inizio pensoso e deciso che esprime un precedente discorso ineffabile, l’energia si è sciolta nella sicurezza delle singole parole, nella nitida forza delle mosse in cui la soavità non è abbandono, l’arcatura è passata dall’impeto drammatico all’espressione di un respiro spirituale, il linguaggio forte si è concentrato in forme assolute come «cure» ed ha preso il tono di un linguaggio segreto, originario, in cui la nitidezza e sicurezza letteraria coincide con le ragioni piú intime.

Forza pura di cui l’inizio (capolavoro assoluto e indicativo per il Foscolo, come l’inizio della Sera del dí di festa per la poesia leopardiana) è la realizzazione piú piena e il modulo essenziale su cui in forme “in simpatia” si svolge il resto del sonetto:

Forse perché della fatal quïete

tu sei l’immago, a me esícara vieni

o sera!...

«Immago» eletta e consistente fra un dubbio e una dichiarazione rivelata nel suo oggetto solo alla fine del movimento dove l’enjambement la sospinge senza sforzo dopo parole assolute, brevi (bisillaba e monosillaba tranne «quïete» e «immago»). Su questa apertura si appoggia e si snoda il periodo equilibrato piú convenzionalmente sui due «quando» e sulle due immagini della sera estiva e invernale, di cui la prima porta con sé un’aura di idillio che, come ben si sa, viene dal primo Ortis e dagli sciolti Al Sole che soprattutto echeggia nella parola piú accarezzata e leziosa, settecentesca «corteggian».

E quando ti corteggian liete

le nubi estive e i zeffiri sereni.

Negli sciolti Al Sole aveva detto in un contesto fortemente ossianesco:

Non piú le nubi

corteggeranno a sera i tuoi cadenti

raggi sull’Oceàno...

e nell’Ortis aveva ripreso «O Sole, diss’io, tutto cangia quaggiú! E verrà giorno che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure sarai trasformato; né piú allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti...» (lettera del 10 gennaio 1798). Il che è prova dell’estrema ripresa foscoliana della propria poesia in un movimento irrequieto e spesso incontentabile. E giustamente dice l’Aglianò (Poesie e prose varie, Firenze 1949, p. 56): «Il poeta non ha abbandonato l’espressione, finché essa non ha trovato il piú felice momento». Ma va aggiunto che l’accenno alla sera era scomparso nell’Ortis e che d’altra parte l’intuizione giovanile nel suo svolgersi originale dell’intonazione ossianesca mantiene inevitabilmente una traccia di carezzamento qui funzionale alla “soavità” e al contrasto del sonetto (“ombre” risentite, “dissonanze” il Foscolo trovava nel Della Casa e certo amava nei propri sonetti), ma di «leggiadro» piú tenue dell’equilibratissimo «soavemente».

Anche il secondo «e quando» per quanto piú omogeneo alla tinta scura e al ritmo internamente drammatico dei sonetti risente di un’origine giovanile ossianesca non completamente riscattata. Tuttavia questi due movimenti piú idillico-elegiaci e, tutto sommato, perciò troppo efficaci e vistosi nella memoria del lettore (ma il primo accresce il senso di freschezza della sera e il secondo il senso di intimità pensierosa sotto l’incombere della notte-morte che scende) servono soprattutto nella loro maggiore vivacità, con il loro chiaroscuro accentuato dalla sottolineatura piú forte del secondo, il suo enjambement efficacissimo (inquïete/tenebre), a preparare la soluzione dei versi 7-8 che interpreta piú profondamente il sentimento fondamentale della sera-morte, della «quiete»:

sempre scendi invocata e le secrete

vie del mio cor soavemente tieni.

«Scendi invocata», «soavemente tieni»: espressioni lievi, intime e d’altra parte assolute e ferme, precise, in questa discesa della «pace» nel cuore tormentato, ansioso del poeta. Contro le «secrete cure», a sedarle scende la pace della sera con la sua doppia immagine (sera-morte) sulle vie «secrete» del cuore. Ma questo viaggio per le vie segrete del cuore evoca direttamente un viaggio dell’animo sulle orme della morte. Dai sensi al cuore, dal cuore alla fantasia piú profonda. E non direi di «pensiero in pensiero», perché questo vagare punta direttamente sull’immagine della morte, si interna, si sprofonda in essa.

Su questi versi la parte piú continua e coerente del sonetto sembra chiudersi: dalla «fatal quiete» enunciata in un’andatura di dubbio («forse perché») e solo come «immagine», termine di paragone della «sera», siamo giunti al «nulla eterno» attinto direttamente dalla profonda meditazione poetica. Ma il motivo della quiete richiede ancora un’onda su cui si solleva ancora un movimento piú tumultuoso e rilevato

e intanto fugge

questo reo tempo

cui corrisponde la preoccupazione in questo sonetto di uno sfondo piú grandioso e di un finale che nel distendersi serbi l’eco del dramma, quasi riprenda tipici movimenti dei sonetti precedenti in questa zona piú profonda e sicura, piú distaccata e solenne: prova di forza e verifica di vitalità.

L’attenzione al «tempo» (nel Leopardi sarà il «secolo» o il «mondo») «reo»[16], (e dentro c’è tutta l’amara esperienza dell’Ortis) come età e come “relativo” opposto a «ombra eterna», porta nel sonetto un’eco di rumore di folto volo di vicende (come nel finale della Sera del dí di festa), un balenare di direzioni e relazioni diurne e complesse, quasi intricate (e volutamente): «con lui le torme onde meco egli si strugge», sino a sfiorare un ingorgo nell’ansia di legare il passaggio del tempo e delle «cure» del poeta e dell’epoca (l’insecuritas dell’epoca rivoluzionaria napoleonica), un suono aspro e drammatico con l’abbondanza ben calcolata delle r, e di parole «gravi», «reo», «torme di cure», «si strugge», «spirto guerriero», «ch’entro mi rugge». Ma dentro questo nuovo movimento, ecco una ripresa del motivo iniziale nel verso 13

(e mentre io guardo la tua pace...),

che solleva e giustifica l’ultima mossa aspra e bellicosa. In quest’ultima mossa si può sentire come il riaffiorare di un linguaggio aspro caratteristico dei primi sonetti, ma evidentemente questo movimento vive in funzione di una linea che lo supera e lo utilizza senza pericolo di urto e di stonatura.

4. «In morte del fratello Giovanni»

Nel Carteggio con l’Arese il suicidio del fratello Giovanni è ricordato con parole che già mostrano come al contatto con l’atto definitivo le precedenti ragioni di ira contro Gian Dionigi cadevano (in una lettera al Monti dell’autunno 1801 – Epistolario, I, p. 119 – il Foscolo accennava ai debiti e alle vicende che condussero il fratello al suicidio, parlando di lui come di persona «da cui non posso aspettare se non un disonore») e al loro posto subentravano l’affetto che non abbiamo motivo di negare, il vagheggiamento affettuoso in cui si confondeva l’immagine di Giovanni con la propria e con quella di Jacopo[17] che proprio in quel periodo veniva condotto nella seconda parte dell’Ortis alla sua morte disperata.

Nella lettera all’Arese (Epistolario, I, p. 358, lettera 243) cosí veniva annunciata la morte: «Mio fratello è morto, le sue fiere vicende, la sua anima generosa, un dolore profondo, lo stancarono della vita. Egli morí fra le braccia della sua povera madre che è caduta malata, e che non ha né coraggio né forza di scrivermi. Addio, addio. Temo che fra pochi giorni non le resterà di tre figli che questo giovinetto infelice che piange con me la nostra sciagurata famiglia. P.S. Non farei che rattristarti con le infinite mie lagrime, e col dolore che presto sarà seppellito con questo corpo infelice».

Già le cause occasionali venivano trasfigurate («fiere vicende» che divennero poi «le secrete cure / che al viver tuo furon tempesta»), l’immagine di Giovanni si assimilava nei suoi elementi migliori a quelle dell’eroe sventurato di cui lo stesso Giulio prendeva la sagoma piú giovanile («giovinetto infelice») e della sua famiglia («sciagurata»).

Il ritmo piú intenso della fantasia foscoliana veniva cosí investendo il tragico avvenimento (e se ne nutriva a sua volta come di una conferma reale a cui tutta la poesia foscoliana sembrava condurre) in un periodo di solitudine sempre maggiore (la passione per l’Arese è nel suo declino), di ripensamento generale del proprio destino infelice in cui sempre piú dalla cronaca, per quanto intensa, veniva trasportato nella “vera storia” del Foscolo, nella riserva delle sue immagini-affetti, sulla linea della sua ispirazione e del suo calcolo artistico, in vista della sua costruzione poetica, l’essenziale e non anche il tumulto delle vicende come era avvenuto nell’Ortis.

Ed ecco che sempre nel Carteggio Arese (p. 375, lettera 258, principio del 1802) il riferimento al fratello è sempre piú funzionale all’immagine del poeta (Zacinto mito della sua grecità; fratello suicida mito del suo destino o della sua aspirazione alla «quiete» dopo le «fiere vicende» a cui è sottoposta «la sua anima generosa»): «Io sento quella stessa stanchezza che consumò il mio povero fratello». Quella morte aveva rinforzato e depurato il senso del destino e della invocazione alla morte e l’aspirazione alla «quiete» congiunta al motivo dell’esilio e della vita dolorosa che domina i tre grandi sonetti del 1802 in coincidenza con le pagine piú alte dell’Ortis (l’inno alla morte da Rimini) è caratteristica di questo periodo in cui morte, suicidio e senso della sventura si colorano piú o meno cupamente nell’Ortis e nel Carteggio, in cui l’autoritratto del «giovane malinconico e sventurato» (p. 312) si cala in mezzo a esplicite suggestioni di suicidio: «città da suicidio» è detta Milano, «stagione da suicidio», «giornata da suicidio» (pp. 286, 302), e nella lettera 221 (p. 308) il desiderio di suicidio diventa proposito. «Io non gemerò piú in questa vita tempestosa funestata dalle mie vibrate passioni, accecato da’ miei errori e perseguitato ingiustamente dalla fortuna e dagli uomini».

La morte di Gian Dionigi risolve praticamente questa antica ossessione del suicidio, presentatasi in dignità poetica nel Tieste, nell’Ortis, e mentre dà un potente appoggio di realtà innegabile, offre al poeta la possibilità di un colloquio, di una invocazione, di un “tu” in un periodo in cui il Foscolo creava piú direttamente personaggi e miti (la Musa, Zacinto, la Sera, il fratello) cui rivolgersi, al di sopra delle delusioni della vita, ma ricco dell’affetto già misurato nella vita.

Nella solitudine in parte vera, in parte fantasticata (il romitorio di cui parlava al Cesarotti nel 1803 e al Bettinelli anche nel 1804), l’inno e il colloquio usufruiscono di quella vecchia intonazione affettuosa di nostalgia e di rimpianto elegiaco in una nuova linea «fatale», personalmente “storica”, che unifica in un essenziale inno alla morte come «quiete» dopo la tempesta della vita (motivo di Alla sera) il ricordo del fratello, l’immagine altissima della madre desolata, l’errare dell’esule.

La romantica «Sehnsucht nach dem Tode» ha perso la sua enfasi torbida, si è assimilata ad un senso grandioso di inno, ma insieme, di fronte al sonetto A Zacinto tanto piú puro e impeccabile, ha mantenuto qui, sulla costatazione di un fallimento («questo di tanta speme oggi mi resta!»), una maggiore tensione drammatica con qualcosa di simile ai sonetti e all’Ortis pur nella nuova dimensione di meditazione laica. E d’altra parte il dramma, che qui fa sentire la sua presenza con piú continuità anche se sempre nella forma mediata a noi nota, è tanto piú controbilanciato in questo sonetto di origine complessa e laboriosa da elementi letterari unificati e risolti come quelli autobiografici dalla capacità foscoliana di liricizzare, capacità che si è fatta sempre piú sicura e consapevole.

Cosí motivi intensamente vissuti nella fantasia, giunti a maturazione e progressivamente affinati ed essenzializzati, separati dagli elementi piú esterni, dalle esperienze piú limacciose, vengono ad incontrarsi con suggestioni letterarie omogenee o “sentite” omogenee, con immagini utilizzate nell’intensa lettura del letterato e del critico potenziale sempre attento non al possibile intarsio, ma alla presa di possesso personale, secondo certe linee di gusto e di interessi che non riducono d’altra parte mai i testi utilizzati a semplici “thesauri” come avviene ad esempio in un D’Annunzio.

Cosí alla base del sonetto, oltre i ricordi di versi petrarcheschi e petrarchistici (il 12 che è nel Petrarca:

questo mi avanza di cotanta speme[18];

il 5 che risente del verso petrarchesco:

Indi, traendo poi l’antico fianco;

il 6 in cui si ritrova anche il Di Costanzo:

E sol, col cener mio muto e sepolto),

e sparsi richiami tibulliani e virgiliani[19] (Tibullo, I, 3, per i vv. 13-14:

non hinc mihi mater,

quae legat in moestos ossa perusta sinus

non soror...

II, 6:

Illius ad tumulum fugiam supplexque sedebo

et mea cum muto fata querar cinere;

Virgilio:

Magna curarum fluctuat aestu),

la poetica foscoliana mai paurosa di contaminazioni, grazie alla sicurezza della originalità della propria ispirazione (pochi poeti hanno avuto cosí chiara coscienza del proprio valore e del valore creativo del poeta veramente tale), pose un chiaro ricordo letterario di quel Catullo greco-latino che il Foscolo stava studiando nel suo Commento alla Chioma di Berenice, esempio di quell’unione del «mirabile» e del «passionato» che meglio poteva trovarsi nella Chioma, meno nel CI. (E si noti che nello scambio fra vita e letteratura sul piano poetico il lavoro sulla Chioma si legava alla simile situazione di Catullo che traduceva la Chioma – dice ad Ortalo – per dimenticare il dolore della morte del fratello).

Il motivo del fratello morto che in Catullo si presenta già nel LXVIII con accenti di disperazione

(Multa satis lusi: non est dea nescia nostri,

quae dulcem curis miscet amaritiem:

sed totum hoc studium luctu fraterna mihi mors

abstulit...)

e che ritorna nell’epistola Ad Hortalum (forse primo punto di contatto fra biografia e letteratura) domina il breve componimento CI, di cui interessarono il Foscolo i primi versi che «dipingono» il viaggio errabondo verso l’Asia Minore e il colloquio con il muto cenere, mentre l’ultima parte piú da «compianto» era lontana dal fantasma poetico in cui si poteva assestare l’immagine della tomba fraterna:

Multas per gentes et multa per aequora vectus

advenio has miseras, frater, ad inferias,

ut te postremo donarem munere mortis,

et mutam nequiquam alloquerer cinerem.

In una memoria cosí gremita di ricordi (qui Petrarca, Di Costanzo, Catullo, Tibullo, Virgilio) e con una capacità di sintesi cosí originale i quattro versi catulliani si trasformarono rapidamente nella immagine foscoliana di un errare ben piú grandioso e romantico del viaggio di Catullo che accentua solo la difficoltà di spazi e di pericoli, e di un ipotetico arrivo presso la tomba del fratello, presso la quale è la madre vecchia (per me il suo «dí tardo traendo» non contrasta con i cinquantacinque anni di Diamante Spathis che il Foscolo ricorda sempre con espressioni di vecchiaia naturali al suo peggioramento istintivo e poetico delle proprie circostanze infelici), in un pietoso colloquio con il cenere muto del figlio.

Dei versi catulliani il Foscolo sentí il movimento («multas per gentes»), il senso di viaggio faticoso (simile al viaggio di Ulisse del sonetto A Zacinto), la posizione invocativa-evocativa di «frater» («fratel mio») e la bellissima figura del colloquio con il cenere muto, ma tutto fu trasformato e liricizzato potentemente: il «multas per gentes» è travolto in un errare di esule drammatico e rapido, fatale (nei Sepolcri diventò: «a me che il fato ed il desío d’onore fan per diverse genti ir fuggitivo»), che sarebbe persino esagerato (fuggendo) se non servisse ad aprire questo movimento fatale; e l’immagine del colloquio si sdoppia in due immagini di diverso valore: quella dell’arrivo presso la «pietra» del fratello e in quella simile, ma piú ferma e solenne, della vecchia madre che funziona da centro immobile del sonetto in questo passaggio continuo da movimento a immagine contemplata, da gesto pio a invocazione di morte-quiete e a costatazione dolente del presente e previsione rassegnata del futuro.

Insomma questo sonetto cosí carico di ricordi letterari e autobiografici è anche quello che con piú forza li organizza e li trasforma in un movimento totalmente nuovo che utilizza anche le forme piú accentuate dei sonetti minori e le fonde nella nuova linea ampia, nell’intonazione solenne ed intima, mutandole di immagini “nuove” figurative e sentimentali, figure neoclassiche che a loro volta si sciolgono in una continuità musicale ed in un palpito sentimentale.

La prima quartina realizza il movimento essenziale nella sua massima purezza, in un’aria di passione e di gentilezza giovanile intorno alla delicatissima figura del giovane seduto sulla tomba, suggerita da un rapido disegno e dal limpido suono volante in cui la scandita musica foscoliana del primo verso (scandita e meditata) è alleggerita, privata del suo battito piú sonoro (che pure non manca qua e là in questa poesia detta fortemente) specie nella bellissima frase gerundiale, aerea e perfetta in un accordo superiore di parole gentili e limpide (uno dei segreti del linguaggio eletto e allusivo, figurativo e musicale del Foscolo maggiore): «gemendo / il fior de’ tuoi gentili anni caduti».

Una frase poetica che realizza in maniera originalissima quel senso della morte giovanile (affascinante e dolente) che occupò la fantasia di quell’epoca (dall’Ossian cesarottiano[20], al Pindemonte, al Leopardi) e che prelude, nel suo accordo di forme soavi e di cadenza malinconica ferma e limpida, a quel modo di costruire le figure giovanili e dolenti proprio del mondo delle Grazie (dove il di piú drammatico sarà non abolito, ma meglio e piú originalmente assorbito). Le indicazioni settecentesche del verso sciolto pariniano e neoclassico con l’inversione e l’accentuazione sull’aggettivo («il fior de’ tuoi gentili anni caduto») e quelle delle piú rudi immagini cesarottiane umide di sentimentalità struggente sono state assorbite dal grande poeta insieme alle possibili suggestioni linguistiche del Petrarca o dell’Ariosto (Petrarca, Canzoniere, 40, «Che mi fece ombra al fior degli anni suoi...»; Ariosto, Orlando furioso, VII, 41, «In fior de’ piú begli anni suoi» – e il Leopardi riprenderà in A Silvia: «né tu vedrai / il fior degli anni tuoi») in una novità di accordo che fa sentire la suggestione di tanta poesia e di tanta direzione congeniale di gusto e insieme le sorregge e le unifica in una immagine e in un suono inconfondibile nella loro unione di forza e di volo, di gentilezza e di decisione senza sfumatura e senza languore.

Nella seconda quartina l’immagine si ferma piú chiara nella figura bellissima della vecchia madre, in una immagine sepolcrale che sembra il preludio e la giustificazione intima della parte piú affettuosa e familiare della religione delle tombe nei Sepolcri (e l’immagine della madre anima la seconda terzina e funziona da immagine che distende figurativamente e anima sentimentalmente), ma l’incontro nel colloquio fra la madre, il cenere muto e il fratello lontano apre la via al nuovo movimento che si svolge fino al v. 11: sullo squallore del cenere muto (un’espressione mutuata e letteraria, ma carica dell’ansia romantica del sentimento spezzato della morte, punto di partenza dei Sepolcri) e da quell’ingorgo di sentimenti che freme sotto la limpida e quasi scenica figurazione si stacca il nuovo movimento troppo energico in verità per fermarsi come avveniva nel 1803 dopo due versi. È la ripresa del primo motivo, ma piú profondo: non piú il viaggio verso la tomba del fratello, ma la tensione – sullo spunto di una esclusione dai «tetti materni» e sul ritmo dell’esilio – attraverso la tempesta delle «cure», alla morte, alla quiete nella morte.

La delusione che inizia il movimento si fa progressivamente piú vasta e generale: non solo la delusione della separazione dalla tomba del fratello e dalla madre, ma la delusione delle speranze crollate, la coscienza del destino infelice a cui non basterebbe neppure il riacquisto della patria, la fine dell’esilio. Rimane solo la speranza della morte invocata in un linguaggio “sacro”, da “inno”, su di un crescere mirabile di tempesta fatale nei versi 9-10, in cui le «secrete cure» cosí vaghe e misteriose[21], che legano al centro dell’anima questo sonetto a quello Alla sera certo contemporaneo («le secrete vie del mio cor...», «le torme delle cure...»), tanto piú potenti si sferrano in sotterranea tempesta («il cupo dove gli affetti han regno» pariniano è ormai acquisito alla poesia foscoliana che lo ha applicato nel Tieste e nell’Ortis).

La grande poesia finisce veramente qui (e abbiamo visto la difficoltà per il Foscolo di giungere sino in fondo con la stessa altezza), ma il tono si mantiene nobile e la figura della vecchia madre di origine tibulliana (con dunque un forte aiuto di disegno classico e di topica classica: le «ossa perusta» presupponevano il rito dell’incinerazione!) chiude coerentemente questa poesia nella sua direzione figurativa di pie immagini sepolcrali a cui il movimento di lontananza e di tempi (vivo in tutto il sonetto: «un dí, or, oggi, allora») dà una funzione altamente distensiva, dopo la leggera e intima enfasi dell’esilio («straniere genti»). Quel «di gente in gente» si è trasformato in certezza di esilio e di illacrimata sepoltura e il tono riassuntivo, fermo si avvicina al tono del finale di A Zacinto, ma certo piú esteriormente e fiaccamente.

La grande parola-chiave su cui il sonetto idealmente si chiude è «quiete», proprio il polo opposto e dialettico alle «secrete cure» tempestose e al «di gente in gente», proprio la parola che è al centro ideale del sonetto Alla sera.

Il sonetto nella lezione 1803 appariva piuttosto diverso a causa dell’interruzione alla fine delle quartine

ma io deluse a voi le palme tendo

e sol da lungi i miei tetti saluto.

(E nel verso 2 il «me» al posto di «mi vedrai seduto» implicava una accentuazione eccessiva in coerenza con quel tanto di energia enfatica non tutta assorbita in questo sonetto).

Solo nel 1816 nei Vestigi della storia del Sonetto italiano il Foscolo riportando il sonetto come il piú rappresentativo dei suoi sonetti fece cadere il punto alla fine della seconda quartina (e quello anche meno decisivo della prima pausata con due punti[22]), appoggiò il verso 8 sulla pausa del doppio punto al verso 6 e del punto e virgola del verso 7 (nella lettera al Bettinelli in calce a quella dell’Arrivabene, 29 marzo 1804, il verso 6 aveva il punto e virgola per staccare con piú forza il «ma» e l’espressione della sua delusione: primo avviamento al cambiamento successivo) e sostituito al «sol» il «se» aprí il meraviglioso movimento della seconda terzina in cui l’arcatura, già viva nella prima quartina e nell’interno della terzina, trova in simpatia il largo giro fra quartine e terzine in un senso piú ampio e solenne, accentuando la vicinanza al IX senza disperdere il carattere piú drammatico del nuovo sonetto.

L’approdo del movimento e dell’ispirazione al verso 11, come in A Zacinto, acquista il suo valore originalissimo di soluzione di viaggio del cuore e della fantasia:

e prego anch’io nel tuo porto quiete!,

mentre nella prima lezione la frattura fra accordo quartina e terzina rompeva l’impeto e disgiungeva parti che hanno il loro valore musicale e poetico proprio nella loro continuità.

Che importa se il cambiamento causò una certa difficoltà di “passaggio” logico? Ben piú alto vantaggio ne veniva al sonetto e proprio ne derivava una ripresa piú poetica e coerente della primitiva stesura, una visione del “momento” e del valore poetico piú dall’alto e con la suggestione del sonetto A Zacinto[23].

Quello che nella prima lezione era un momento di tensione scandita ed altamente eloquente diviene un momento di passaggio di grande valore musicale, mentre fa risaltare il piú importante «sento gli avversi numi e le secrete...»[24].

Il Foscolo realizzava cosí bene l’ispirazione essenziale del sonetto e di quel periodo di ripensamento lirico di motivi essenziali della sua vita in un unico lungo sguardo tradotto in un unico respiro musicale fra invocazione ed evocazione.


1 Fra agosto 1802 e aprile 1803 (cioè fra consegna della collana pisana e nuova edizione milanese), ma certo all’inizio della nuova piccola serie. Si colleghi con la lettera al Monti (29 aprile 1802) in cui parlando dell’ode accenna all’abbandono della poesia («dopo un anno che le vergini Muse mi avean lasciato»).

2 V. M. Fubini, Foscolo minore, Roma 1949, pp. 97 e ss,. e V. Cian, in Prose del Foscolo, III.

3 Non si tratta come potrebbe apparire di una costatazione di inaridimento successivo ai grandi sonetti perché è proprio ai sonetti che si accenna nella chiusa e il paragone è fra un’epoca di grande abbondanza ispirativa e un’epoca in cui la poesia filtra con difficoltà («rade, operose rime»), ma non cessa («soltanto una favilla del tuo spirto è viva»), inadeguata però all’urgenza di sfogo sentimentale che ci rimanda ai motivi deteriori del Carteggio Arese nella sua prosecuzione del dramma ortisiano.

4 «Soccorri al core omai, che langue e posa / non ave, e queste membra stanche e frali / solleva: a me ten vola, o sonno, e l’ali / tue brune sovra me distendi e posa. [...] Lasso, che ’nvan te chiamo, e queste oscure / e gelide ombre invan lusingo...» (Della Casa, Al Sonno).

5 Si ricordi del resto quanto il Foscolo scrisse (Opere, IV, p. 32) circa queste riprese integrali di versi altrui: «Quando i grandi poeti tolgono a prestito da ingegni inferiori essi migliorano di tanto le cose tolte ch’è pur difficile di scoprire lor fonti, e piú ancora di poterseli biasimare». «Chi col solo toccare un pezzo di ferro nascosto, e sia pur coperto di ruggine, ne fa d’improvviso una spada acutissima e risplendente, non è plagiario, ma esercita anche in questo il potere magico, istantaneo del genio».

6 Per l’utilizzazione che il Foscolo fece della lirica cinquecentesca (non per la tematica ma per i mezzi stilistici e per una certa disposizione spirituale-poetica dellacasiana che poté essere di appoggio alla sua sicura ispirazione) occorre rileggere soprattutto il Della Casa nella direzione essenziale alla sua opera tecnica della forza (della «cura») e piú tardi poetica del ripensamento energico e favoloso che trova realizzazione negli ultimi sonetti da quello della bella greca e Al Sonno a quelli piú originali della fine della vita. Il Foscolo risentí del primo il linguaggio forte («prescrisse», «cui brevi e rare / prescrisse ore severe»; ed. Seroni, Firenze 1944), «spirto guerriero» («feroce spirto un tempo ebbi e guerriero»; LII), senso dello sdegno e della fortuna avara («or viver orbo i giorni gravi e rei, ché sol m’avanza omai pianto e disdegno»; XIII), del secondo proprio la composizione affascinante del sonetto, il giro lungo, indagante traducendo una condizione di ripensamento, di meditazione senza interruzione: cosí per A Zacinto si pensi al sonetto XXXVI La bella greca e per Alla sera al sonetto LIV Al Sonno, e il LXIII con il suo finale piú risentito. E già per il sonetto Alla Musa a certe mosse, a certi rilievi ombrosi dentro l’arcatura propria del sonetto Al Sonno che poi il Foscolo citò romanticizzandolo, adeguandolo piú direttamente al proprio animo. La gravitas e la pensosa meditazione con cui il Della Casa fece funzionare la sua “arcatura”, la musica numerosa e complessa dei suoi sonetti trovavano accoglienza nell’animo foscoliano: piú placato che definitivamente rasserenato. Del resto già prima dei grandi sonetti il Foscolo aveva guardato certamente al Petrarca attraverso i petrarchisti del ’500 e lo stesso Di Costanzo, poi condannato nei Vestigi della storia del sonetto italiano, prestò spunti di frasi convenzionali come il «chiuder le porte» del XII che si trova all’inizio del sonetto Chiuder non posso a quel pensier le porte del Di Costanzo.

7 Chi in tempi moderni sembrò riprendere il giudizio del Cesarotti fu il Citanna nelle sue osservazioni al sonetto A Zacinto (La poesia di Ugo Foscolo, seconda edizione, Bari 1932, pp. 62 e 81-82, in cui si difende dal rimprovero del Fubini).

8 Si veda in proposito l’acuto studio di L. Caretti in «Belfagor», 30 novembre 1949.

9 M. Fubini, Foscolo minore, Roma 1949.

10 B. Croce, La letteratura italiana del Settecento, Bari 1943, pp. 352 e ss.

11 Ossian: «Son quattro pietre la memoria sola / che di te resta... / Tu sei umile, o Morad, tu non hai madre / che ti congiunga, o giovinetta sposa / che d’amorose lagrime t’asperga» (I canti di Selma, 206, 13), La «illacrimata sepoltura» richiama cosí una delle piú forti immagini-stimolo dell’Ossian, ma nella sua particolare definizione (e proprio il «definire» poetico è qualità foscoliana che suggella e si appropria vaghe immagini preromantiche e neoclassiche) pare risentire del côté classicistico: nella traduzione di Pindaro dell’Adimari 1631-1632, si trova appunto «illacrimabili ore» nel senso di «illacrimabilis» e non compianto, mentre qui riassume tale senso piú direttamente e in maniera assoluta. Esempio di come il Foscolo riprendesse forme antiquate e inusitate e le portasse ad un uso piú diretto, deciso e suo. «Questo illacrimata, dirà il De Sanctis, è pieno di lacrime» e accentuerà bene la forza particolare di questa parola cosí eletta, classica e insieme cosí vicina alla parola chiave di tanto preromanticismo.

12 V. Marino, Poesie varie, a cura di B. Croce, Bari 1913: Al Sonno e Il Sogno, p. 104.

13 V. Corso foscoliano, I, p. 130 [qui alle pp. 82-84].

14 Dice il Fubini (op. cit., p. 21): «Tutto il sonetto è dominato dal “forse” che il poeta non sa né vorrebbe chiarire...». In realtà il «forse» è solo iniziale e accentua la nascita pensosa, meditabonda della poesia che poi chiarisce la sua “Sehnsucht”.

15 Stendhal sentí la melanconia senza asprezza del sonetto per quanto accentuando forse il “disacerbamento” in una eccessiva dolcezza: «En idéalisant les peines qui pesaient sur quelques âmes, il leur a enlevé sans doute ce qu’elles avaient de trop amer» in Promenades dans Rome, edizione Champion, p. 32.

16 Il tempo «reo» è espressione dantesca (Inferno, V, vv. 64-65): «per cui tanto reo / tempo si volse», e petrarchesca: «questi anni rei» (Petrarca, Canzoniere, I, parte II). «Reo» vale calamitoso e infelice, implica un insieme di sciagure, di vicende inquiete, infelici, e si apre con una visuale dell’esperienza del poeta a quella di tutta un’epoca e del tempo in genere. Il Foscolo autorizza sempre non al «vago», ma al «ricco» e «drammatico», al dinamico dentro una forma scandita e perfetta.

17 Il Goffis nei suoi Studi foscoliani ricorda (p. 283) come, secondo la scoperta del Bianchini, il ritratto di Jacopo preposto alla prima edizione dell’Ortis era quello di Gian Dionigi, non di Ugo.

18 Che ritorna nelle Ricordanze del Leopardi: «la morte è quella / che di cotanta speme oggi m’avanza».

19 E vagamente pindarici (Pitica, IV) che il Foscolo espone nella prima lezione pavese («solo la madre domanda nella disperazione del suo dolore un’urna dove possa raccogliere almeno le ceneri del figliuolo e lagrimare nella sua vecchiaia sopra esse... Intanto Demosile siede dolente su le montagne di Tebe, e volge gli occhi alle piagge australi ove lasciò la sua patria»; Opere, ed. naz., VII, p. 108. Ma in realtà nella lezione pavese il Foscolo trasformò gli accenni assai scarni di Pindaro (non vi si parla di madre o di urna) secondo il proprio sonetto. E la suggestione pindarica si riduce appena ad una figura di esule.

20 Ossian, Temora, I, vv. 642-643: «e tu dovrai / cader nel fior di giovinezza estinto».

21 Altro esempio altissimo di classicismo romantico. La parola «cura» cosí tipica della poesia latina (Orazio, Lucrezio, ecc.) aveva assunto nella lingua poetica italiana un senso piú vago e letterario (v. Poliziano, Stanze, I, 43: «la selva / quanto piú può sue cure disacerba»), mentre nel linguaggio comune ha sempre piú perso il significato di preoccupazione e afflizione. Il vocabolario dell’Accademia non riporta che quattro esempi: uno di Dante: «le ricchezze non posson quietar, non dan piú cura»; del Tasso: «La nave sua non ha tempo o cura... che vi sia chi l’arresti»; poi il verso del Foscolo e uno del Carducci: «il dissidio, o mortal, de le tue cure...». E il Tommaseo che ne dà una definizione assai romantica («pensiero e sentimento molesto, sí perché l’importanza della cosa che s’ama, con la coscienza del dovere e con la tema del non gli soddisfare, e con la stessa trepida brama dell’affetto, e colla intensità dell’affezione, si fa grave al cuore e alla mente») riporta nel senso che ci può interessare tutti esempi latini o esempi anche italiani (Tasso, Della Casa) nel senso di gelosia, di lascivia, ecc. Ma nel senso assoluto in cui il Foscolo la usa al plurale nei due sonetti non c’è esempio importante in italiano. È in certo modo una creazione-ripresa foscoliana da forme latine («curis ingentibus aeger», Virgilio) in cui Foscolo sentí la doppia direzione di «curae» («Magna curarum fluctuat aestu», Virgilio) varie, molteplici, imprecisabili e di «cura» nel suo senso essenziale di angoscia, di preoccupazione fondamentale, assoluta, di condizione di angoscia. Ma dicendo «angoscia», «ansia», ecco che troviamo la radice nuova della parola foscoliana, la sua inclinazione romantica che lo stesso Foscolo chiarí nel Commento alla Chioma di Berenice definendo la cura «prepotente desiderio che vive in noi, pieno di speranze e di timori» (p. 290). Le «secrete cure», «le cure onde meco egli si strugge», sono quasi un elemento essenziale della mitologia romantica foscoliana, del suo linguaggio antico-nuovo ben piú originale che quello pariniano e solo avviato da quello alfieriano piú rozzo e approssimativo.

22 Il Chiarini non segue la punteggiatura dei Vestigi quale invece appare nel testo dato da L. Fassò (Opere, ed. naz., VIII, p. 147). E cosí in genere i vari editori che han seguito il Chiarini. Nel testo del 1816 c’è anche un esclamativo al v. 11 e un punto e virgola al v. 10 per sottolineare una pausa prima dell’invocazione.

23 Anche al verso 13 si ebbe un cambiamento nettamente positivo con la sostituzione del mediocre «almen le ossa rendete» con l’«ossa mie».

24 Vecchi editori e qualcheduno recente (F. Biondolillo, ad esempio, Prose e poesie scelte, Milano 1938) mantengono la vecchia lezione 1803 per ragioni di coerenza logica. Ecco un esempio di tale difesa nel vecchio commento del Trevisan (Milano, quarta edizione, 1898): «[la nuova lezione] trarrebbe a sragionare cosí: E se io da lontano saluto i miei tetti; vale a dire, se io col pensiero rivedo la mia famiglia, sento allora, dentro di me, i dolori e le angosce, che tempestano il cuore di mio fratello, e lo trassero a morte innanzi tempo. Onde ne verrebbe, che le angosce dell’animo di Ugo simili a quelle del fratello, fossero effetto del salutare in ispirito la sua lontana famiglia e non già delle sue proprie sventure, delle sue molte passioni e di altre ragioni ad Ugo ben note – e quindi, che quand’egli non pensava alla casa sua, non avesse a penare quelle terribili angosce. Del resto, anche il pensiero poetico, con quella variante (E se) perderebbe molto della sua bella e armoniosa tessitura. Si veda un po’ a che industria, talvolta, la smania di certe varianti!» (p. 112). Mentre è evidente che se l’intenzione del Foscolo fu inizialmente per una chiara distinzione dei due momenti: lontananza, impossibilità di andare a Venezia e coscienza del suo destino sventurato e simile a quello del fratello, poi nella revisione 1816 apparve a lui in una cura piú profonda del legame e dello slancio musicale (musica il Foscolo chiedeva all’Alfieri dei sonetti «benché abbiano poca musica e certa trivialità di voci qua e là»: Vestigi..., Opere, VIII, p. 147) la possibilità di rendere insieme piú complesso e altamente patetico il passaggio dei sentimenti di lontananza e di coscienza della sventura, senza con ciò arrivare ad un non-senso logico e tanto meno ad un nonsenso politico: «ma io invano tendo a voi le mie braccia e proprio quando solo da lontano saluto la mia casa tanto piú sento l’avversità dei numi e le preoccupazioni, ecc.». Il saluto che è l’inizio della ripresa poetica è il punto di sentimentale accentuazione della disposizione a sentire l’avversità.